Latina, capi firmati… ‘made in Cina’: chiuso noto sito, era pubblicizzato sui social attraverso famosi influencer

Chuiso sito di vendita online

Profili social utilizzati per commercializzare note marche di abbigliamento di lusso, ma rigorosamente contraffatto, seppur in modo eccellente. Il commercio, messo in piedi da due ventenni di Sezze attraverso una pagina web è stato scoperto mei giorni scorsi dalle Fiamme Gialle di Latina.

I finanzieri, dopo articolate indagini, hanno dato il via a un’operazione che ha portato alla denuncia dei due giovani per aver messo in piedi un vero e proprio business di abbigliamento contraffatto, il tutto sfruttando le piattaforme social. Attraverso Instagram, TikTok e Vinted i due ragazzi vendevano capi di noti brand di lusso, come Balenciaga, Gucci e Louis Vuitton, ma con un piccolo dettaglio… erano tutti falsi.

Coppia nella vita e… negli imbrogli

I finanzieri del Gruppo di Latina, dopo aver setacciato il web e fatto qualche controllo sul territorio, hanno individuato un giovane di Sezze che, insieme alla sua compagna, ha pensato bene di pubblicizzare e vendere i prodotti contraffatti, spesso con l’aiuto di influencer che hanno contribuito a rendere il tutto ancora più appetibile.

I due avevano persino creato cataloghi online per mostrare le loro “meraviglie”. Le indagini non si sono fermate qui. I finanzieri hanno anche esaminato i flussi finanziari legati ai conti bancari utilizzati, scoprendo un volume d’affari che si aggira intorno ai 100 mila euro.

Durante le perquisizioni, sono stati trovati anche dispositivi informatici utilizzati per l’attività, oltre a contante per oltre 2.000 euro e tre carte di credito. Le pagine social utilizzate per le vendite sono state oscurate.

Merce acquistata “dai cinesi” e marchiata con brand famosi

Le perquisizioni, disposte dalla Procura della Repubblica di Latina – Sost. Proc. dott. Valerio De Luca – hanno permesso di acquisire ulteriori prove di quanto veniva fatto dalla coppia dei ventenni, che avevano un’organizzazione strutturata secondo il modello del cosiddetto “drop-shipping”, caratterizzata da assenza di giacenze o scorte di magazzino.

I giovani, inoltre, acquistavano la merce, “su commissione” dei clienti, da fornitori cinesi (istruiti sulle modalità di confezionamento dei pacchi, sui quali venivano apposti il “marchio” distintivo riconducibile ad un vero e proprio store on line italiano), con successiva consegna ai destinatari finali attraverso corrieri nazionali.