Menia ricorda in aula i martiri di Trieste del ’53: “Sono un faro di eroismo e di italianità”

Menia, Trieste

«70 anni fa, il 4 novembre del 1953, le strade di Trieste si colorarono di sangue in nome del Tricolore. Fu una rivolta dettata da una condizione della città angosciosa, che aveva lasciato il ricordo delle foibe e quello dei 42 giorni di annessione alla Repubblica comunista di Jugoslavia. Oggi voglio ricordare quei caduti, tra i quali Pierino Addobbati esule da Zara di 14 anni e Nardino Manzi esule da Fiume di 15, perché sono gli ultimi martiri del nostro Risorgimento e un anno dopo, il 26 ottobre del 1954, Trieste tornava all’Italia e l’Italia a Trieste». Con queste parole, il senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia ha ricordato quei tragici fatti nel suo intervento in aula.

Il testo integrale dell’intervento del senatore Menia sui martiri di Trieste

«Signor Presidente – riporta il resoconto stenografico del senato trascrivendo l’intervento di Menia – colleghi, desidero ricordare in quest’Aula i ragazzi di Trieste. Settant’anni fa, in questi giorni, le strade di Trieste, la mia città, si coloravano di sangue per una rivolta che nasceva nel nome del Tricolore. 

Trieste in quegli anni era una città contesa. Mentre l’Italia cominciava a ricostruirsi dopo la guerra, Trieste viveva la condizione angosciosa di città rivendicata. Dall’altra parte c’era Tito, c’era la Jugoslavia comunista che reclamava Trieste e aveva lasciato a Trieste il ricordo di un’occupazione, seguita a quella nazista, che aveva riempito le foibe del nostro Carso, che parlava di 4.000 scomparsi chissà dove. E aveva lasciato il ricordo tragico di quella quarantena, di quei quarantadue giorni in cui Trieste era stata dichiarata annessa alla Repubblica federale di Jugoslavia, in cui l’ora era stata adeguata all’ora di Mosca e in cui, per l’appunto, si voleva portare via all’Italia quella Trieste sacra agli italiani.

La rivolta di ragazzi di Trieste nacque non a caso, in un giorno sacro alla Patria. Il 4 novembre i triestini, gli italiani di Trieste, si recarono a Redipuglia in massa e di ritorno da Redipuglia tornarono nella città in cui li aspettava il generale inglese Winterston. La città era stata infatti confinata in un assurdo territorio libero voluto dall’infame Trattato di pace del 1947, che aveva diviso il cosiddetto territorio libero di Trieste in zona A, cioè la città di Trieste e quella che è oggi la sua misera provincia, e una zona B, che è la parte nordoccidentale dell’Istria, che era invece amministrata dalla Jugoslavia comunista. Ebbene, quei ragazzi tornarono e il generale inglese Winterton aveva proibito l’esposizione del Tricolore. I ragazzi tornarono sventolando la bandiera e tutto nacque lì. Un ufficiale inglese strappò la bandiera di mano ad un ragazzo e una ragazza, la più coraggiosa di tutte, si lanciò a testa bassa verso quel colonnello inglese.

Da lì nacquero gli scontri del 4 novembre e furono scontri durati tutto il pomeriggio fino alla serata del 4 novembre. La mattina seguente le scuole di Trieste proclamarono lo sciopero e tutti i ragazzi uscirono dalle scuole e riempirono la città di bandiere tricolori. Si svolgevano cortei spontanei ovunque e si ripetevano scontri sulle strade di Trieste, scontri continui. C’era il famigerato nucleo mobile della cosiddetta polizia civile, furono rovesciate camionette; questo accadde anche dopo e ci furono altri scontri violenti. I ragazzi si rifugiarono dentro la chiesa di Sant’Antonio Nuovo. Questo accadeva al mattino. Gli inglesi spalancarono le porte del tempio, usando gli idranti, fecero entrare il nucleo mobile che, con i manganelli, riempirono di sangue la chiesa. Il vescovo di Trieste ordinò la riconsacrazione della chiesa. Era il pomeriggio del 5 novembre 1953. Quando i ragazzi e la gente di Trieste avevano riempito il tempio, arrivarono improvvisamente le camionette inglesi che circondarono la chiesa. I ragazzi uscirono; davanti c’era un cantiere pieno di pietre e cominciò una fitta sassaiola, alla quale, nonostante agli inglesi – così dissero – fu ordinato di sparare in alto, gli stessi risposero cominciando a sparare ad altezza d’uomo.

Il primo a morire fu un ragazzino di quattordici anni: si chiamava Pierino Addobbati. Era un ragazzo esule da Zara. Suo padre era un medico antifascista e antinazista apprezzatissimo; quando lo volevano arruolare nella Wermacht gli dissero di andare con loro o sarebbe stato internato. Ebbene, egli scelse di essere internato. Pierino Addobbati morì per primo. Ho incontrato qualche giorno fa suo fratello che vive ancora, mi ha abbracciato e mi ha detto di ricordare ancora quel giorno in cui fu la sua stessa mamma a mettergli la coccarda tricolore sul petto. Fu colpito proprio sul petto: lo colpirono all’aorta, aveva quattrodici anni e morì davanti alle scale di Sant’Antonio Nuovo. Ci sono ancora i buchi dei proiettili. Poco più in là moriva anche Antonio Zavadin, che era un marittimo di sessantaquattro anni. 

La notte fu drammatica e terribile – ricorda Menia – la mattina gli scontri ricominciarono. Gli inglesi fecero togliere anche il tricolore che aveva esposto il sindaco di Trieste, quello che diventerà poi il sindaco della seconda redenzione. Gli scontri si spostarono in piazza Unità, che era il luogo sacro di Trieste. Il primo a morire fu Nardino Manzi (Applausi): aveva quindici anni ed era esule da Fiume. Era il più coraggioso: in tutte le foto di quel giorno lo si vede avanzare per primo, con a fianco un altro coraggiosissimo, che si chiamava Francesco Paglia, aveva ventiquattro anni ed era il capo della Goliardia nazionale di Trieste. Vedete com’è la sorte: morì in piazza Unità, sotto la prefettura, strappando la carabina a un inglese, colpito da un cecchino dall’alto. Poco più in là, dall’altra parte della piazza, moriva Saverio Montano, un padre di famiglia di cinquant’anni. Ma la storia incredibile dei due è che Francesco Paglia era stato un bersagliere volontario nella Repubblica Sociale Italiana e aveva difeso il confine sulla Selva di Tarnova, sopra Gorizia. Dall’altra parte, Saverio Montano era un partigiano, ma era un partigiano bianco, non di quelli che volevano dare Trieste a Tito era un partigiano volontario della libertà. (Applausi). Morirono insieme un fascista e un partigiano per Trieste italiana. E poi morì ancora Erminio Bassa, un barese. (Applausi).

In quei due giorni – prosegue il senatore Menia – morirono questi 6 uomini e ragazzi che, per la mia generazione, sono stati un faro di eroismo, di bellezza, di splendore, di italianità. Di Montano ricordo anche di aver conosciuto la figlia, Duina. Si può trovare il telegramma che scrisse al fidanzato, che era pugliese, dove scrisse: “Ieri hanno ammazzato alle 12 in piazza Unità mio padre, ed è morto da grande italiano”.

Sono storie di settant’anni fa, sì, è vero, ma grazie a quei ragazzi e grazie a quel sacrificio, un anno dopo, e non a caso prima del 4 novembre, il 26 ottobre 1954, Trieste tornava all’Italia e l’Italia tornava a Trieste. (Applausi). Sono stati per noi gli ultimi martiri del nostro Risorgimento. Gli eroi non muoiono mai. Per me, per noi, il fatto di ricordarli ancora una volta settant’anni dopo, in questo Parlamento, è ricordare la bellezza dell’eroismo, la nobiltà della vita, la casa, l’amore, la patria, l’amore per la nostra adorabile Italia». E qui l’intervento di Menia si chiude tra gli applausi dell’intera aula del Senato.