Quel “saluto romano” che Trilussa sta riportando d’attualità (video)

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“…Perché il saluto romano te viè a dì, in sostanza: semo amiconi, se volemo bene… ma restamo a ‘na debbita distanza!”. In questo verso del famoso sonetto di Trlussa c’è tutto il messaggio di quella romanità diffusa che il poeta distribuì con i suoi versi. Né critico né fiancheggiatore del fascismo, Trilussa si limitava a registrare sornione le iniziative del regime, senza approvarlo né disapprovarlo. Piuttosto osservando come i romani reagivano a questo o quel provvedimento. E come “svicolavano” (da un’altra sua poesia) piuttosto che prendere chiaramente posizione pro o contro. Come in definitiva poi fece lui. Il Covid e il divieto di stirngersi la mano ha riportato in auge il suo sonetto “La stretta de mano”: …te po succede ch’hai da strigne quella d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia… avverte il poeta.

Trilussa osservò i romani con scetticismo

Uno sguardo attento, lucido e disincantato sulla borghesia romana della quale coglie gli aspetti più nascosti illuminando il contrasto tra l’apparenza e la verità. Un racconto che rappresenta, con una buona dose di scetticismo, anche tanti tipi umani mettendone in luce le aspettative, le speranze e le povertà. Poeta, scrittore, giornalista, Trilussa, di cui il 21 dicembre cadono i 70 anni dalla morte, è stato un vero e proprio campione del dialetto romanesco. Autore di sonetti, Trilussa abbandonò presto questa forma narrativa per passare alla parodia delle favole classiche. Un espediente narrativo che il poeta utilizzò in modo libero tanto da approdare a composizioni svincolate dalla metrica.

Collaborò per anni a “Il Messaggero”

Scomparso, ironia della sorte, nello stesso giorno di un altro grande poeta romano, Giuseppe Gioacchino Belli, morto però nel 1863, Trilussa (pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri) è nato a Roma nel 1871. Ancora giovane, iniziò a pubblicare i suoi primi sonetti intorno al 1890 sulla rivista Don Chisciotte e su Il Messaggero con cui collaborò a lungo. Alla sua prima raccolta, “Quaranta sonetti romaneschi”, seguirono “Altri sonetti” nel 1898, “Caffè-concerto” nel 1901, “Er Serrajo” del 1903. Composizioni nelle quali il poeta mette in scena la vita quotidiana della Roma borghese e piccolo borghese esemplificata in figure e macchiette usate ad arte.

Un racconto divertito, caustico ma anche malinconico e crepuscolare, che lo conduce ben presto sul terreno della favola e dell’apologo che per lui diventano composizioni libere. Un periodo molto fervido durante il quale vedono la luce “Ommini e bestie” e “Lupi e agnelli: nove poesie”,(1910), “Le storie” (1913), “Le cose” (1922), “La gente” (1927), “Libro numero nove” (1929), “Giove e le bestie” (1932), “Libro muto” (1935), “Acqua e vino” (1944-45). Maestro nella satira politica e sociale, Trilussa ha di fatto rappresentato cinquant’anni di vita romana e italiana dagli anni del Fascismo al secondo dopoguerra.

Trlussa morì nel 1950

Una vita, quella di Trilussa, spesa a descrivere la miseria e la nobiltà della società italiana che ha avuto anche una piccola parentesi politica. Il primo dicembre del 1950 il Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, lo nominò infatti senatore a vita. Una nomina, però, tardiva. Già malato, Trilussa si sarebbe spento il 21 dicembre dello stesso anno. E ben consapevole, nei suoi ultimi giorni, di non avere troppe speranze di farcela, pare che salutò la nomina con ironia. Intervistato da Epoca sentenziò: “M’hanno nominato senatore a morte”.

(Foto: ConosciaAmo Roma)