Roma, “Non ti do il drink” e scatta la rissa con i latinos: botte da orbi e lanci di bottiglie a Don Bosco
Ancora una rissa a Roma in zona Don Bosco, a poca distanza da via Flavio Stilicone, dove, nella serata del 10 ottobre, era scoppiata una vera e propria guerriglia urbana tra gruppi di sudamericani e bengalesi.
Questa volta il teatro dell’ennesima lite è stato un bar in via Ponzio Comino, dove sabato pomeriggio si è consumata una scena da far west: bottiglie infrante, urla e vetri spaccati, fino all’arrivo della polizia che ha arrestato i tre responsabili della rissa. Tra loro un uomo e una donna cubani di 54 anni e una donna cinese di 42 anni, accusati di rissa aggravata. Sullo sfondo, l’esasperazione dei residenti, stanchi di vivere in un quartiere ormai sinonimo di conflitto e abbandono.
La rissa: le botte da orbi anche davanti ai poliziotti
Da una prima ricostruzione, intorno alle 14 i due sudamericani hanno chiesto un drink nel bar “Il Girasole” ma la barista, una donna cinese di 42 anni, si è rifiutata, vedendo la coppia già ubriaca. I due allora hanno iniziato a insultarla e minacciarla ed è nato un alterco, proseguito in strada. Il figlio della donna, minorenne, è intervenuto in difesa della madre.
La situazione è degenerata: insulti, minacce e, infine, il lancio di bottiglie contro la vetrina del locale. La lite si è spostata in strada, sotto gli occhi di decine di passanti, mentre il caos attirava sempre più attenzione. La vicenda si è immediatamente infiammata.
Dall’aperitivo al caos
Qualcuno, allarmato, ha chiamato la polizia. E, quando sono arrivati gli agenti, hanno trovato i quattro – la coppia di clienti da una parte e madre e figlio dall’altra – che ancora si stavano picchiando. Le due donne erano armate. La cubana aveva in mano una mazza di legno, mentre la cinese un coccio di bottiglia. Tutti si erano feriti tra di loro. Il figlio della donna, minorenne, pur partecipando alla rissa, cercava di mantenersi in disparte.
Cubani sopraffatti
Gli agenti, con un po’ di fatica, sono riusciti a riportare la calma. Alla fine, i quattro sono stati portati tutti al pronto soccorso prima di essere poi arrestati – i tre maggiorenni – e denunciato il minorenne. I due cubani hanno avuto la peggio: l’uomo ha riportato una prognosi di 10 giorni, mentre la donna addirittura di 20 giorni. È andata decisamente meglio ai due cinesi, che hanno picchiato duro e sono riusciti a difendersi meglio, riportando entrambi prognosi da 6 giorni. La donna cubana, però, malgrado fosse quella più malconcia, una volta all’interno della volante della polizia, ha iniziato a dare in escandescenze, cercando di colpire sia l’auto che i poliziotti.
Infatti per lei, oltre che l’arresto per rissa, è scattata anche la denuncia per danneggiamenti ai beni dello stato e per resistenza a pubblico ufficiale.
Un quartiere ostaggio della paura
Non è la prima volta che Don Bosco si ritrova al centro delle cronache. Solo un mese fa, appunto, in via Flavio Stilicone, una guerriglia urbana tra sudamericani e bengalesi aveva trasformato le strade in un campo di battaglia. Spranghe, bastoni e vetrine distrutte: quella lotta tra bande rivali ha lasciato cicatrici profonde nel tessuto sociale del quartiere.
Gli abitanti non nascondono la loro esasperazione. «Non se ne può più, è sempre la stessa gente che crea problemi», sbotta una residente sui social, dove l’allarme si diffonde rapido a ogni episodio di violenza. Un altro abitante punta il dito contro le occupazioni abusive, diventate simbolo del degrado della zona: «Palazzi popolari lasciati al loro destino, invasi da gruppi che si sentono padroni».
Un problema che va oltre le risse
Dietro questi episodi di violenza, c’è un nodo ancora più complesso. Occupazioni illegali, criminalità organizzata e bande latine hanno trasformato Don Bosco in un quartiere sempre più difficile da vivere. Secondo le indagini, molti degli appartamenti popolari della zona sono finiti nelle mani di occupanti abusivi, spesso legati a gruppi criminali. Un fenomeno che non si limita ai singoli episodi, ma mina la sicurezza e il senso di comunità.
Nel frattempo, polizia e carabinieri continuano a indagare su un sistema radicato, mentre i cittadini chiedono risposte urgenti. «Ci sentiamo abbandonati», conclude una residente.