Tornate in patria dopo 80 anni le spoglie di 20 Caduti italiani nella campagna Russia

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Storie vere, dure e crude da non dimenticare. Ci sono voluti 80 anni, ma trovati e rientrati in Patria i resti dei corpi di 20 soldati italiani caduti nella campagna di Russia della seconda guerra mondiale. Le loro storie sarà praticamente impossibile raccontarle perché per la maggior parte sono ignoti, ma si possono raccontare le storie di chi è tornato, si può tramandare la memoria con nipoti e figli di reduci. Storie come quella che ricorda Giorgio Tagliabue figlio di Antonio Carlo Tagliabue, reduce che combatté la battaglia di Nikolaevka, un feroce scontro del 26 gennaio 1943 tra le forze dell’Asse e le truppe sovietiche che portò a ripiegamento costituì la ritirata, determinando l’annientamento delle truppe italiane, decimate da morti, feriti e prigionieri.

Le enormi sofferenze degli italiani in Russia

“Mio padre raccontava come gli si congelarono i piedi sul Don, raccontava quanto aveva sofferto in Russia, con la neve e il gelo e gli attacchi dei russi con i katyusha. Era Sergente del 2° Reggimento Artiglieria Alpina del gruppo Val Camonica unito nella ritirata alla Tridentina, e ho ancora il suo vecchio cappello alpino e ricordo bene quanto è stato orgoglioso e commosso quando anche io sono entrato negli Alpini – racconta all’Adnkronos Giorgio Tagliabue di Albavilla, provincia di Como -. Tra le sue cose ho trovato la Croce al merito di guerra. Fu uno degli ultimi reduci a tornare in Italia, pochi della sua compagnia tornarono. Quattro anni fa consegnatami la Medaglia d’onore dalla presidenza del Consiglio”.

L’aiuto delle donne russe

“Mi è sempre rimasto impresso, tanto che ancora quando ci penso mi emoziono, quando mi diceva delle sofferenze patite, della mancanza di cibo, della debolezza e del fatto che chi si fermava per sfinimento, rischiava il congelamento. – continua Tagliabue -. Per non congelarsi i piedi e e le gambe, dato che gli scarponi non erano adatti a quelle temperature così basse, i soldati tagliavano strisce di stoffa da cappotti o mantelle, si fasciavano piedi e gambe fino alle ginocchia e per fissarle usavano il filo di ferro. Da chi ricevettero aiuto? Dalle donne russe. Tanti italiani si salvarono perché le donne delle isbe russe gli hanno dato rifugio, hanno curato i feriti, anche se erano nemici.

L’eroismo degli Alpini nella neve

“Mio padre ha partecipato alla battaglia di Nikolaevka e mi disse che per sparare, contro l’accerchiamento russo, con la Tridentina, si dovette riparare dietro i soldati morti, tanto era violenta la battaglia. Mio padre ne parlava ogni tanto con gli altri alpini e anche con me, era una persona buona e grande lavoratore, era falegname. – dice ancora Tagliabue -. Dopo l’8 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi e imprigionato a Stablack, Prussia orientale, e il 12 ottobre del 1945 rientrò in Italia, tra gli ultimi reduci, quando era già dato per disperso. Era nato nel 1910 e se ne è andato nel 1997 all’età di 87 anni”.

Il ricordo del nipote di Domenico Rossotto

Un altro ricordo è quello di Riccardo Rossotto, nipote di Domenico Rossotto, colonnello d’artiglieria di montagna del gruppo Conegliano della Divisione Julia, prima sul fronte Greco-Albanese e poi in Russia. “Mio zio, sotto uno pseudonimo, ‘Verdotti’, viene citato da dall’ufficiale medico della 13ma Brigata del Gruppo Conegliano, Giulio Bedeschi, nel suo noto libro Centomila gavette di ghiaccio. – racconta all’Adnkronos Rossotto -. Il legame con i suoi soldati era talmente forte che lo chiamavano papà Rossotto. Le perdite nella campagna di Russia furono ingenti, zio riuscì a riportare a casa oltre seimila uomini, grazie al suo carisma, alla sua forza e capacità di trasmettere speranza. Raccontava di situazioni a meno di 50 gradi, al gelo.

Rossotto salvato dalla fucilazione da parte dei partigiani

Mio zio ha sempre insegnato e dato l’esempio sul fatto che non vi era alcun diritto da parte degli occupanti di fare ciò che volevano, come invece vediamo negli scenari di guerra odierni. Le tragedie si ripetono e mio zio combatté proprio nel Donbass”. La storia più bella è quella del 1945, alla fine. “Zio torna a casa a Limone Piemonte, vicino Cuneo, e il suo nome è nella lista nera dei partigiani perché considerato collaborazionista fascista. Arrestato, processato e condannato a morte in 5 minuti e accompagnato nel luogo dell’esecuzioni da due giovanissimi ragazzi. Mentre camminano uno dei due giovani chiede a mio zio se era Rossotto della campagna di Russia, lui risponde di sì e il ragazzo lo lascia andare, lo libera perché il padre di quel giovane era tornato a casa vivo grazie a lui. E mio zio si salvò dalla condanna a morte”.